Statista italiano. Figlio cadetto del marchese Michele Benso
e della ginevrina Adele de Sellon, fu avviato alla carriera militare che
però risultò presto compromessa dalla sua insofferenza per la
rigida disciplina, dal suo anticonformismo e dalle idee liberali da lui
manifestate. Iscritto all'Accademia militare di Torino nel 1820, a 14 anni
divenne paggio di Carlo Alberto, ma nel 1826 fu radiato per indisciplina e nel
1827 passò come ufficiale al Genio. Nel 1830 fu trasferito al Forte di
Bard per aver manifestato il proprio consenso alla Rivoluzione francese di
luglio. Nel novembre 1831 si dimise, abbandonando definitivamente la carriera
militare. Ciò lo portò a dedicarsi con maggiore impegno allo
studio degli economisti classici inglesi, in particolare di Smith e di Ricardo,
e dei teorici politici francesi, integrando le proprie conoscenze teoriche con
viaggi e soggiorni in Inghilterra, Francia, Svizzera, dove poté osservare
attentamente i sistemi di conduzione aziendale, di produzione agricola e
industriale, e il sistema del governo parlamentare. Spogliatosi dell'abito
mentale della propria classe e della grettezza congenita alla nobiltà
terriera, riuscì a concepire in modo moderno le funzioni economiche della
società capitalistica. Provvide quindi a consolidare il proprio
patrimonio personale e quello della sua famiglia, dedicandosi
all'attività finanziaria e all'agricoltura con lo spirito di un moderno
uomo d'affari europeo. Fortemente interessato alle nuove forme organizzative,
sia su base aziendale che statale, andò maturando un impegno politico che
lo portò a inserirsi nel movimento di riforma e a farsi promotore di
iniziative, quali l'apertura di scuole, tendenti a inserire il Piemonte nel
processo di sviluppo europeo. Egli era infatti convinto che ferrovie, banche,
fabbriche, aziende agricole e commerciali di vasto respiro che andavano
sviluppandosi soprattutto in Inghilterra e in Francia fossero la sola strada che
poteva condurre alla prosperità. Nel 1842 fu tra i fondatori
dell'Associazione Agraria e cominciò ad affiancare la propria
attività pratica con un'attività saggistica che lo portò a
collaborare con importanti studi e con pubblicazioni quali: l'"Antologia
Italiana" di Torino, la " Revue nouvelle" di Parigi, la "Bibliothèque
universelle" di Ginevra. Nel 1847 fondò "Il Risorgimento", un giornale di
tendenze liberali moderate. Eletto deputato nel giugno 1848 e rieletto nel marzo
dell'anno successivo, per quanto non molto dotato come oratore e scarsamente
padrone della lingua italiana, si segnalò per la profondità e
l'efficacia dei suoi interventi, e adottò immediatamente una tattica di
pendolarità tra destra e sinistra che sarebbe poi diventata una sua
caratteristica precipua. Nell'ottobre 1850 entrò nel governo d'Azeglio
quale ministro dell'Agricoltura, del Commercio e della Marina, e concluse presto
una serie di trattati con Inghilterra, Francia, Belgio, così da inserire
il Piemonte nella sempre più vasta area europea di libero scambio.
Assunto anche il ministero delle Finanze (aprile 1851), lanciò un
prestito internazionale che fornì al governo piemontese i capitali per
fronteggiare le necessità immediate e, contemporaneamente, ottenne un
prestito dalla Gran Bretagna che fu in parte utilizzato per la costruzione di
nuove ferrovie. Assunta la presidenza del Consiglio nel novembre 1852,
adottò immediatamente provvedimenti tesi allo sviluppo del commercio e al
miglioramento della rete stradale e ferroviaria e delle attrezzature portuali,
impegnandosi inoltre a consolidare la situazione finanziaria dello Stato. Nel
giro di un paio d'anni riuscì a dare basi più solide allo Stato
piemontese, avvicinandone la struttura a quella dei paesi europei più
progrediti. Sull'esempio di Francia e Inghilterra promulgò leggi tese
all'ammodernamento delle società finanziarie, delle banche, degli
istituti di credito, dell'amministrazione civile dell'esercito. Le sue idee di
progresso e le sue opere di economista e di statista furono tali da farne
l'unico uomo veramente "europeo" del Risorgimento italiano. Grazie alla sua
opera, nel 1854, quando lo scoppio della guerra di Crimea, alla quale il
Piemonte partecipò come alleato degli Anglo-francesi, lo costrinse a
volgere l'attenzione soprattutto alla politica estera, lo Stato piemontese aveva
già fatto grandi passi in avanti sulla strada del progresso sia politico
che economico-sociale, rispetto agli altri Stati italiani. Conclusasi nel 1856
la guerra di Crimea, attraverso la quale
C. si era guadagnato il diritto
di sedere al tavolo della Pace di Parigi e di porre in quella sede congressuale
(aprile 1856) la questione italiana, egli si dedicò nuovamente e con
ancor maggiore impegno al programma di sviluppo economico-sociale del Piemonte:
prolungamento delle linee ferroviarie; traforo del Moncenisio; ampliamento del
porto di Genova. Nel frattempo si era andato convincendo che il vecchio slogan
"L'Italia si farà da sé" non poggiava su alcuna base concreta,
dato che il maggiore ostacolo all'unità italiana era rappresentato
dall'Austria che occupava la Lombardia e il Veneto e i cui governanti avevano
ripetuto, anche al Congresso di Parigi del 1856, che essa non avrebbe rinunciato
ai quei territori se non costretta dalla forza. Come già Custoza e Novara
avevano largamente dimostrato nel 1849, il Piemonte da solo non aveva alcuna
possibilità di sconfiggere l'Austria, ragione per cui era necessaria una
forte alleanza straniera perché l'unificazione italiana (dell'Italia
settentrionale, alla quale più concretamente
C. pensava) potesse
pervenire a sostanziali progressi. Poiché il governo britannico aveva
fatto sapere che il suo aiuto non sarebbe mai stato di ordine militare,
C. puntò su Napoleone III che non nascondeva le sue simpatie per
la causa dell'unificazione italiana e appariva impaziente di intraprendere
qualche impresa, su scala internazionale, che accrescesse il prestigio del suo
regime.
C. giunse così, dimostrando una notevole spregiudicatezza,
alla stipulazione di un trattato franco-piemontese di cui avrebbe dovuto pagare
le spese l'Austria. Nel luglio del 1858 a Plombières-les-Bains egli
s'incontrò con Napoleone III e concluse con lui un accordo che sarebbe
passato alla storia come Patto di Plombières. Esso comprendeva tre
clausole. La prima stabiliva che la quindicenne principessa Clotilde, figlia di
Vittorio Emanuele, avrebbe sposato Gerolamo, cugino di Napoleone III, in modo da
consolidare i legami tra i due Stati. La seconda clausola stabiliva che Francia
e Piemonte avrebbero insieme mosso guerra all'Austria. La terza che, nel
trattato conclusivo di tale guerra, il Piemonte, in cambio della cessione di
Nizza e della Savoia alla Francia, avrebbe ottenuto la Lombardia e il Veneto,
così da formare, insieme anche coi ducati di Modena e Parma e con le
legazioni pontificie, un nuovo regno dell'Italia settentrionale. L'intento di
C. era limitato all'unificazione delle regioni centro-settentrionali.
Infatti, ancora nel 1856 egli giudicava che l'idea dell'unità italiana
era una "corbelleria", e non si converti definitivamente al programma unitario
che nell'estate del 1860, quando si avvide che, dopo la fortunata marcia di
Garibaldi, esso diventava attuabile. Scoppiata nell'aprile 1859 la progettata
guerra contro l'Austria, quando sembrava che, dopo le battaglie cruciali di
Magenta e di Solferino, fosse vicina la totale disfatta dell'Austria, si ebbe
un'imprevedibile svolta di Napoleone III che portò alla stipulazione di
un accordo franco-austriaco, secondo cui l'Austria rinunciava alla Lombardia e
conservava il Veneto (
Trattato di Villafranca). In seguito a ciò,
C. presentò immediatamente le proprie dimissioni (luglio 1859),
mentre il "tradimento" di Napoleone III, anziché smorzare, eccitò
ancora più i sentimenti liberali e nazionali e si ebbe la formazione di
assemblee costituenti nelle regioni dell'Italia centrale. Nel gennaio 1860
C. ritornò al potere deciso a sfruttare il nuovo corso degli
avvenimenti. In marzo una serie di plebisciti portò all'annessione della
Toscana e dei ducati di Modena e Parma, primo passo verso l'unificazione
dell'intera penisola, ad eccezione del Veneto e di Roma, compiuta grazie alle
conquiste militari garibaldine, entro la fine del 1860. Nel corso di quei mesi,
fondamentale fu la strategia politica diplomatica di
C. i cui piani, a un
certo punto, parvero compromessi dalle clamorose vittorie di Garibaldi.
C. sapeva che attaccare Roma avrebbe voluto dire mettersi in urto con la
Francia e con l'intera Europa cattolica, sapeva che forzare eccessivamente gli
eventi poteva provocare un attacco da parte dell'Austria e inoltre temeva che un
rafforzamento delle correnti nazionaliste repubblicane avrebbe potuto
compromettere la posizione del Piemonte e dar vita a una repubblica. Pertanto,
egli s'accordò nuovamente con Napoleone III per una spedizione
dell'esercito piemontese nelle Marche e in Umbria (novembre 1860), da dove
marciò su Napoli per anticipare e controllare i movimenti di Garibaldi e
per dare un'impronta monarchica al movimento unitario. Nel gennaio 1861 si
riunì a Torino il primo parlamento italiano. In mancanza di collaboratori
di spiccato valore,
C. si risolse a concentrare il potere nelle proprie
mani, assumendo la responsabilità di vari ministeri. Ma il 6 giugno,
colpito da febbri, egli veniva improvvisamente a mancare, proprio quando la sua
presenza pareva essenziale al completamento dell'opera politica da lui iniziata
dieci anni prima. Con la sua morte, l'Italia perdeva non solo uno statista
geniale, ma l'unico uomo in grado di coagulare le opposte tendenze in un
parlamento in cui diversi gruppi apparivano determinati più da
affinità regionali che politiche. Gli succedette Bettino Ricasoli (Torino
1810-1861).
Curiosità.
Cavour era davvero una buona forchetta. La sera del 29 Aprile 1859, dopo
aver dichiarato guerra all'Austria disse: " Oggi abbiamo fatto la storia ...
e adesso andiamo a mangiare ".
Ritratto di Camillo Benso, conte di Cavour